È una pura coincidenza dover
scrivere il resoconto di un incontro con l’autore di un libro riguardante la
figura del padre il giorno della Festa del Papà. È un’occasione in più per
poter riflettere sul rapporto che noi stessi abbiamo con i nostri genitori,
sulla loro figura e sulla loro importanza nella nostra vita. Io, ad esempio, ho
capito di aver un padre appartenente, citando il mio prof di filosofia, alla “generazione
1.0”: un padre all’antica, che ha sempre basato la sua presenza nella mia vita sull’autorità,
non per questo volendomi meno bene. Un padre che, per rispondere a Scurati, secondo
il quale si vive in un’epoca stereotipata dove alcuni capisaldi trascinano
tutto il resto dietro di sé, non si troverebbe a Milano, stereotipo per
eccellenza, neanche se ci andasse ad abitare, e che probabilmente non
riuscirebbe neanche a capire cosa significa “seguire la massa”. Un padre che ha
cominciato solo da qualche anno a cucinare per la famiglia, ma che non ha mai
preso l’iniziativa di cambiarmi un pannolino o di lavarmi, come la nuova
generazione di padri, invece, fa.
La mia riflessione, però, è
andata oltre. Il bello di un incontro con l’autore di un libro, infatti, non è
tanto il potergli porre delle domande o ricevere dei chiarimenti riguardo alle
sue parole, ma è piuttosto approcciarsi a qualcosa che non è solo il suo
scritto, ma la base stessa da cui esso nasce: la scrittura. Attraverso i diversi
incontri che abbiamo potuto fare
con la nostra scuola mi è stato per la prima
volta chiaro che la letteratura non è qualcosa a sé stante, che muove dai libri
e che solo le penne degli scrittori riescono a muovere. Lo “scrivere” , che mi
piacerebbe tanto riuscire a praticare con risultati migliori di quelli che
rappresentano i miei stentati e mediocri voti in italiano a scuola, mi è
sembrato non più il semplice predicato della professione di uno scrittore,
quanto un qualcosa di universale, che riesce a coinvolgere prima l’autore, e
che poi coinvolgerà anche tutti i lettori, come una passione multiforme che
attrae, ciba chi ama leggere e sazia chi ama scrivere. Per la Cilento si
trattava di creatività e contemporaneamente di attualità, quel tipo di
scrittura che fa fantasticare e allo stesso tempo meditare; Affinati, invece,
parlava di “letteratura che nasce dalla vita e che alimenta la vita”. Ieri, per
Scurati, la letteratura è diventata causa ed effetto di un’azione universale
dell’uomo, che crea delle storie affinché noi le possiamo vivere, come se le
sillabe di cui le parole sono composte non fossero altro che le nostre mani, i
nostri occhi, le nostre gambe: il modo, insomma, per poter sentire sulla nostra
pelle, e non solo leggere, una storia . Questo è il bello di cui parlavo e
questo, d’altronde, è il motivo che rende in qualche modo speciali queste
occasioni anche per coloro che non hanno finito, o magari neanche cominciato,
il libro che l’autore sta presentando. Non
si tratta di capire quella che è la preparazione e lo stile che l’autore
rappresenta nei suoi righi, e Scurati lo ha detto chiaramente: un bell’aspetto,
una buona proprietà di linguaggio e una buona cultura sono importanti, ma non
ci permettono di vivere tanto quanto, al contrario, ci permettono di guadagnare.
Si tratta, invece, di poter andare molto oltre lettura di una narrazione in
prima persona, capire quale è la
necessità che è alla base di un libro, che ha scosso così tante menti prima di
noi, e riuscire, nella breve durata dell’incontro, a sentirla tangibile, e
contemporaneamente a poter toccare il senso di fierezza che sta alla fine di un’opera
conclusa.
La mia è una mente inesperta, che
si lascia facilmente sedurre da questa specie di amore, diverso per qualsiasi
persona che decide di sedersi e scrivere su di un foglio una storia. Un amore che ha la necessità di essere
vissuto, di essere ricordato e di essere condiviso: quale migliore occasione di
un incontro di questo genere per poterlo fare?
Giovanna Pallotta
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